A.C. 3057-A ed abbinate
Grazie Presidente. Dopo la puntuale presentazione e disamina della relatrice vorrei fare alcune riflessione rispetto a questo provvedimento, che per certi versi è inaspettato agli occhi di molti, per esempio degli organi di informazione, per i quali non avrebbe mai visto la luce. Tuttavia, non c’è solo lo scetticismo di molti che hanno impaginato pagine e pagine chiedendosi: l'Italia che fa ? C’è anche il fatto che siamo sommersi, siamo inondati di dati, di cifre, di numeri, che sicuramente ci forniscono la fenomenologia complessa dello spreco, ne delineano il perimetro articolato del fenomeno, ma allo stesso tempo paralizzano, rischiano di inibire l'iniziativa politica, che di fronte alle dimensioni di un fenomeno globale del genere sembra non poter fare nulla. Nonostante ciò, approda in Aula oggi una legge sul tema, che in qualche modo risponde alla sfida lanciata da Expo e alle domande che si sono posti in quella sede. Anzi, l'Esposizione mondiale di Milano è stata la sede in cui questa legge, che è il frutto di iniziative parlamentari, la prima del PD, è maturata e ha trovato la spinta per proseguire il suo cammino nelle Commissioni parlamentari ed ora finalmente in Aula. Non poteva essere altrimenti, «Nutrire il pianeta, energie per la vita» era il tema di Expo, in cui al centro c'era il cibo, la sostenibilità ambientale e la sostenibilità sociale delle produzioni alimentari. Possiamo dire senza tema di smentita che il provvedimento che discutiamo oggi raccoglie la sfida lanciata da Expo, non si tira indietro dal rispondere alle domande poste e anzi possiamo dire con orgoglio che questo provvedimento è uno dei frutti più buoni di quella manifestazione. Questo tema ha attraversato Expo in molte forme, è diventato forse in qualche modo uno dei temi dominanti, perché forse poneva la domanda più radicale, la questione più profonda, quella che intende interrogare il cuore del modello produttivo che governa il sistema occidentale globale; la domanda riguarda la connessione tra le produzioni di beni e il consumo di quei beni. La risposta è sotto gli occhi di tutti: questa connessione, la connessione tra ciò che produciamo e ciò che consumiamo è disallineata, e per dirla alla Shakespeare dell'Amleto «Out of joint», scardinata. Noi produciamo molto di più di quello che consumiamo, ma allo stesso tempo, questo il paradosso, ciò che viene prodotto non è abbastanza per soddisfare i fabbisogni mondiali.
Lo spreco, come lo approfondiamo oggi nella sua enormità insopportabile di numeri e cifre, appare sempre più, per dirla in termini psicanalitici, il rimosso del modello produttivo che ha prevalso finora. Quello che emerge, anche in questo Paese e nel mondo, è che forse alla base dello svilimento, della svalutazione, infine al superamento, delle culture dei modelli contadini e rurali a favore di moderni modelli di consumo, fenomeno che ci ha illuminato splendidamente Pier Paolo Pasolini nelle sue opere, c’è la volontà anche di sopprimere una cultura che affrontava, gestiva e limitava il fenomeno dello spreco. Non è un caso che questa legge abbia nell'agricoltura non solo il riferimento importante perché ci si occupa di cibo, ma perché in quell'ambito, in quel settore, si possono trovare risposte.
Il provvedimento, molto articolato non si tira indietro dall'affrontare anche altri settori dei fabbisogni primari, penso al tema dei farmaci e a quello degli abiti; affronta le varie fasi della produzione, della trasformazione, della distribuzione e del consumo di cibo. Voglio citare, a titolo di esempio, la possibilità di recuperare prodotti agricoli direttamente in campo da parte delle associazioni del terzo settore, che altrimenti andrebbero perduti. È una pratica in uso da sempre nelle campagne, chi ha esperienza della vita delle aziende agricole ricorda che, in passato, la solidarietà di consentire a chi era in stato di bisogno di accedere ai propri campi era una pratica abituale. L'agricoltura, abbiamo dimenticato, ha sempre avuto una vocazione sociale che le consentiva non solo di produrre beni, ma di rispondere anche ad esigenze sociali. Da questo punto di vista crediamo che il riconoscimento del Tavolo di coordinamento che ha sede presso il MIPAF sia una cosa importante. Finora quel tavolo ha gestito risorse statali e comunitarie per finanziare progetti distributivi di derrate agli indigenti. Questo tavolo ha gestito spesso iniziative a sostegno di comparti in crisi, trasformando quel sostegno in occasioni di solidarietà concreta. Ora a questo tavolo è incrementato nei suoi componenti da rappresentanti della filiera produttiva, dalla rappresentanza di associazioni di solidarietà e dalle istituzioni. Questa modalità di collaborazione è alla base di un nuovo modello di economia e impresa, quella che qualcuno oggi chiama economia circolare, ma che non è altro che l'idea che le scelte economiche d'impresa hanno coinvolgimenti comunitari ampi e che molto spesso imprese di solidarietà possono trovare sinergie importanti, che non si riducono alla semplice beneficenza. Questa modalità di impresa e di economia è probabilmente meno nuova di quello che riteniamo, è forse più nostra di quello che pensiamo. Negli anni in cui Adam Smith scriveva le sue opere fondamentali di economia, alla base delle quali c'era l'idea di homo oeconomicus, mosso da una forma di egoismo produttivo, Antonio Genovesi, da una cattedra intitolata «Economia civile» rispondeva ribadendo la dimensione comunitaria dell'impresa. Per Genovesi il soggetto economico è relazionale e fatto di reciprocità; il mercato ha una funzione mutualistica. Quell'idea di economia civile, che per secoli è sembrata subalterna al modello anglosassone che si è imposto, trova oggi gli eredi migliori nel mondo dalla cooperazione, dei distretti del made in Italy, della finanza etica, della buona agricoltura e nel pensiero che il prodotto, le cose che produciamo e che coltiviamo non vivono solo nella dimensione dello scambio e del mercato.
La relazione fra persone, che le cose sono, che il prodotto, i beni primari sono non si esaurisce nell'essere cose o prodotti di consumo. Ecco, credo che l'idea di sostenere, riconoscere e promuovere la donazione – è bello chiamarla «donazione» e non solo «cessione gratuita» – come pratica non di beneficenza, ma come strategia per rispondere ai bisogni sociali sia la grande conquista di questa legge.
Sta finendo, forse, un'epoca che aveva ridotto il dono a regalo. L'atto di donare è altro: rimanda a una pratica più profonda di cura dell'altro, che il turbo-liberismo, che abbiamo vissuto in questi anni, ci aveva fatto dimenticare. Naturalmente questa legge non intende vincolare, mettere paletti alle pratiche di coloro che operano nella solidarietà, sarebbe sbagliato e anche impossibile da farsi. È un ambito di relazioni e di pratiche umane troppo ampio e troppo ricco.
Uno dei più grandi pensatori di questi anni Jacques Derrida, nel suo splendido libro «Donare il tempo», parafrasando Baudelaire, diceva che testimoniare della paradossalità del dono è un po’ come cercare il mezzo dì alle 14. Derrida insisteva nel rapporto tra dono e temporalità: donare significa aprire un tempo nuovo. Non so se questa legge aprirà un tempo nuovo, so che questa legge è in sintonia con tempi nuovi.
Da ultimo, vorrei fosse messo agli atti un ringraziamento al lavoro della relatrice, alla sua tenacia, che ha consentito a questa legge di essere qui oggi, e alla sua intelligenza, che ha consentito a questa legge di essere maturata in modo così importante.